lunedì 11 maggio 2009


PER DOMANI IN PROGRAMMA LA VISIONE DEL FILM """IL DIVO"""PERCORSO STORICO,


"VISTO L'ETà SI PUò DEFINIRE TALE" DELL'ON. ANDREOTTI E CON LUI PER PARADOSSO
DELL'ITALIA
INTERA. Un film di PAOLO SORRENTINO................

C'è un uomo
che soffre di terribili emicranie e arriva anche a contornarsi il volto con
l'agopuntura pur di lenire il dolore. È la prima immagine (grottesca) di Giulio
Andreotti ne Il divo.
Siamo negli Anni Ottanta e quest'uomo freddo e
distaccato, apparentemente privo di qualsiasi reazione emotiva, è a capo di una
potente corrente della Democrazia Cristiana ed è pronto per l'ennesima
presidenza del Consiglio. L'uccisione di Aldo Moro pesa però su di lui come un
macigno impossibile da rimuovere. Passerà attraverso morti misteriose
(Pecorelli, Calvi, Sindona, Ambrosoli) in cui lo si riterrà a vario titolo
coinvolto, supererà senza esserne scalfito Tangentopoli per finire sotto
processo per collusione con la mafia. Processo dal quale verrà assolto.
Paolo
Sorrentino torna a fare cinema direttamente politico in Italia (Il caimano
essendo un'abile commistione di politico e privato). Compie una scelta
difficile pur decidendo di colpire un obiettivo facile: Andreotti. L'uomo di
Stato che è stato definito di volta in volta, la Sfinge, il Gobbo, La Volpe, il
Papa nero, Belzebù e, giustappunto, il Divo Giulio si prestava sicuramente a
divenire simbolo di una riflessione sui mali del nostro Paese. La scelta era
comunque difficile perchè Sorrentino aveva alle sue spalle almeno tre nomi ai
quali ispirarsi e dai quali stilisticamente distinguersi in questa sua
riscoperta del cinema impegnato: Francesco Rosi, Elio Petri, Giuseppe Ferrara.
Il primo con il suo rigore nella denuncia, il secondo con una visionarietà
graffiante, il terzo con il suo cronachismo drammaturgicamente efficace.

Sorrentino riesce nell'operazione. Dichiara, consapevolmente o meno, i propri
debiti nei confronti degli autori citati nella fase iniziale del film che
innerva però sin da subito con una cifra di grottesco che diventa la sua
personale lettura del personaggio e di coloro che lo hanno circondato e
sostenuto. Proprio grazie a questa scelta stilistica può permettersi,
nell'ultima parte del film, di proporci le fasi processuali per l'accusa di
mafia grazie a una visione in cui surreale e reale finiscono con il coincidere.

L'Andreotti di Sorrentino è un uomo che ha consacrato tutto se stesso al
Potere. Un politico che ha saputo vincere anche quando perdeva. Un essere umano
profondamente solo che ha trovato nella moglie l'unica persona che ha creduto
di poterlo conoscere. La sequenza in cui i due siedono mano nella mano davanti
al televisore in cui Renato Zero canta "I migliori anni della nostra vita"
entra di diritto nella storia del cinema italiano. È la sintesi perfetta (ancor
più degli incubi ritornanti con le parole come pietre scritte a lui e su di lui
da Aldo Moro dalla prigione delle BR) di una vita consacrata sull'altare
sbagliato.
Una vita in cui, come afferma lo stesso Andreotti (interpretato da
un Servillo capace di cancellare qualsiasi remota ipotesi di imitazione per
dedicarsi invece a uno scavo dell'interiorità del personaggio), è
inimmaginabile per chiunque la quantità di Male che bisogna accettare per
ottenere il Bene. That's Life? Forse non necessariamente.

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